Il suicidio della donna fa sì che il pubblico ministero Federica Rende apra un fascicolo. Le indagini dell’autorità inquirente sono serrate: il pm cerca di capire se all’interno della casa circondariale qualcuno abbia sottovalutato il caso. La pratica si chiude con la richiesta di rinvio a giudizio per tre medici: si tratta di Carmelo Crisicelli, Linda Di Bilasi e Francesco Chimenz. I dottori finiscono nel mirino della magistratura. L’accusa è pesante: la loro imprudenza, la loro negligenza, avrebbe concorso a cagionare il suicidio della detenuta. Ai tre viene rimproverato, in particolare, un precedente: nell’esercizio della loro consulenza psichiatrica, gli imputati avrebbero omesso di prescrivere la sorveglianza a vista, a dispetto di un precedente tentativo di suicidio già perpetrato dalla Vinci. I familiari della donna si costituiscono parte civile.
Il punto allora è uno: si è trattato davvero di un evento ponderabile? O si deve tenere in considerazione la natura meccanica e impulsiva del gesto? Ci sono, poi, altri rilievi che i legali sollevano nel processo: la donna aveva raccontato alla compagna di cella i propri progetti per il Natale, la qual cosa testimonia la sostanziale tranquillità della Vinci. Di più: la sorveglianza a vista è un provvedimento invasivo, peraltro difficilmente attuabile in un carcere ove si registra la carenza di personale. Da qui la richiesta è netta: i legali esortano i giudici ad assolvere i medici perché il fatto non sussiste o, in subordine, per insufficienza di prove.
L’epilogo della mesta vicenda è arrivato poco fa. La Corte, che in primo grado aveva condannato i medici per omicidio colposo a dieci mesi di reclusione, in Appello ha dichiarato la prescrizione per Crisicelli (rappresentato dall’avvocato Barone), mantenendo però la condanna al risarcimento dei danni in favore dei familiari della vittima. Ha altresì assolto Di Blasi e Chimenz – difesi rispettivamente dagli avvocati Campioni e Candido – per non aver commesso il fatto. Proprio l’ultimo legale, a margine della sentenza, ha confessato la propria soddisfazione professionale: “ho creduto dal primo momento nell’innocenza del mio assistito e mi sono battuto per ottenerne il riconoscimento. La Corte di Appello di Messina ha liberato il mio cliente da un enorme peso morale e da un ingiusto discredito professionale“.