Charlie Hebdo, il simbolo della libertà che non può morire e non morirà

StrettoWeb

Un assalto in piena regola, efferato, violento: dodici corpi riversi a terra in un bagno di sangue. No, non siamo nelle martoriate strade di Baghdad, laddove i tagliatori di teste trucidano perfino i corpi morti dei militari occidentali. Siamo nella civilissima Parigi, nel cuore dell’Europa Unita, lontano dal regno dell’Isis. Siamo, per l’esattezza, nel plesso di una redazione distrutta, crivellata di colpi.

Le stanze di Charlie Hebdo sono state scosse stamane dal fremito dell’integralismo islamico: sotto i colpi d’arma da fuoco, scagliati al suono blasfemo di “Allah Akbar”, giace buona parte della nostra civiltà. Parigi si è risvegliata bruscamente dalla favola del multiculturalismo di Stato e l’opinione pubblica sta assistendo esterrefatta ad un’aggressione che ha un chiaro carattere intimidatorio. Sì, perché lo scopo della banda armata che ha realizzato l’assalto non era soltanto quello di chiudere i conti con chi aveva sbeffeggiato il Profeta Maometto: era più sottile, mirava ad istituire un tabù per l’opinione pubblica occidentale.

Inaccettabile. Charlie Hebdo era, anzi è, una rivista scomoda, inopportuna, caustica, polemica. Una rivista pruriginosa che navigava nel politicamente scorretto per colpire l’immaginario collettivo. In pieno stile Voltaire.

Stéphane Charbonnier, ammazzato stamattina per i suoi “misfatti artistici”, era convinto della propria missione professionale: “Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un’auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio“. E’ forse questo il messaggio che si leva nel cielo d’oltralpe.

Del resto da quelle parti il termine “sconti” non sanno neppure cosa significhi. L’hebdo hara-kiri, antesignano della rivista, nelle edicole dal 1969, accolse la morte di De Gaulle con un gigantesco sfottò. Apriti cielo, il padre nobile della ricostruzione francese era allora un intoccabile: scattò immediata la sospensione delle pubblicazioni decretata dal Ministero dell’Interno. Ma i veti e le censure durarono lo spazio di un mattino, giusto il tempo di cambiare nome e testata. Nacque così la rivista che in questi anni ha animato discussioni e polemiche.

Nel 1981 un’altra battuta d’arresto: la perdita dei lettori, l’assenza di introiti pubblicitari, lasciò presumere che i tempi fossero cambiati. Fu soltanto l’intrapredenza di Philippe Val, Gébé e Cabu a portare, nel 1992, ad una nuova sfida editoriale, diversa dal passato, politicamente meno neutrale, più vicina alle posizioni di una sinistra graffiante e rivoluzionaria.

E’ in questo frangente che inizia la guerra culturale all’integralismo mussulmano. Le simpatie per le posizioni intellettuali espresse, all’inizio del nuovo millennio, da Oriana Fallaci convinsero la redazione dell’opportunità di scuotere il mondo islamico con colpi ben assestati, dimostrando che la cappa integralista non poteva essere calata su un blocco spirituale tutt’altro che monolitico.

Le immagini di Maometto nudo, sulla sedia a rotelle, spinto da un ebreo ortodosso, immagini a dire il vero sgradevoli, portarono i fondamentalisti a gridare vendetta. Perfino il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, criticò pubblicamente la linea del giornale: “È davvero intelligente gettare benzina sul fuoco?” disse l’esponente politico del governo Ayrault.

Lo era. Lo era perché la missione della testata non era essere responsabili nei confronti dei delicati equilibri politici mondiali, ma informare i lettori, provocarli, indurli a riflettere, nel rispetto della legge francese: “se ci sono leggi diverse a Kabul o Riyadh non ci importa” chiosò il direttore Gérard Biard.

Oggi qualcuno ha imposto la sharia nella strade di Parigi: ad occhio per occhio, non risponderemo dente per dente. Continueremo a sfottere gli estremisti, perché la fede genuina è tutta un’altra cosa.

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