Hannah Arendt trattò nelle sue opere il concetto di “pluralismo” in ambito politico, ritenendo sempre fondamentale la prospettiva di inclusione dell’altro; inoltre, altra caratteristica dei suoi lavori, difese fortemente ogni forma di democrazia diretta, preferendola di gran lunga alla democrazia rappresentativa.
Tra le sue opere più importanti si annoverano: “La banalità del male”, realizzata nel 1963, che si basa sul resoconto del processo all’ufficiale nazista Adolf Eichmann, attraverso cui la Arendt sostiene che il male non è radicale, ed è proprio per questo che persone spesso banali si possono trasformare in veri geni maligni; il riferimento alla Germania nazista è palesemente ovvio. “Le origini del totalitarismo”, del 1951, è un altro grande lavoro di Hannah Arendt, chiaro emblema delle sue ricerche sull’intreccio tra morale e politica: qui, infatti, tracciò le radici dello stalinismo e del nazismo, insieme con le loro connessioni all’antisemitismo. È il 1958 quando la Arendt scrive “Vita activa. La condizione umana”, dove vengono descritte le tre condizioni necessarie per l’esistenza umana: il lavoro, la fabbricazione e l’agire.